Come abbiamo visto, le credenze patogene fanno sì che il perseguimento di obiettivi sani e piacevoli sia vissuto come pericoloso: per tale motivo il senso di sicurezza e le capacità di padronanza della persona diminuiscono. Di conseguenza, le persone mettono alla prova ogni volta che possono le loro credenze patogene nella speranza di disconfermarle. Queste messe alla prova si chiamano test. I test sono azioni di prova, pianificate in genere inconsciamente, il cui obiettivo è comprendere se il pericolo prefigurato da una o più credenze patogene è ancora attuale.
Un esempio di vita quotidiana può facilitare la comprensione di questo fenomeno: una donna teme che una persona a cui tiene, per esempio il suo compagno, non sia interessato a comprenderla e la trovi pesante, ed è triste per questo. Quando il compagno le chiede se c’è qualcosa che non va, lei può rispondergli: “No, nulla”, guardandolo con un’espressione triste. Nel dargli quella risposta la donna spera, più o meno consapevolmente, che il compagno insista e le chieda nuovamente se c’è qualcosa che non va, perché questa insistenza sarebbe la prova che non la trova davvero pesante e poco interessante. Se il compagno insiste, infatti, la donna dopo un po’ si rilassa e si apre; altrimenti, ci resta male e si arrabbia.
Dato che le credenze patogene si formano a partire da situazioni e relazioni problematiche dell’infanzia, che in genere coinvolgono genitori e fratelli, possiamo anche pensare ai test come modi per vedere se le persone che oggi sono per noi importanti ci proporranno relazioni simili a quelle che ci hanno fatto soffrire nel corso della vita. Per vedere se possiamo fidarci e provare a perseguire i nostri obiettivi sani e piacevoli o saremo ri-traumatizzati.
La donna che teme di essere pesante e poco interessante, per esempio, può aver sviluppato questa credenza perché si è sentita pesante e poco interessante per la madre, che in realtà era assorbita e appesantita dal proprio lavoro. Pertanto, quando incontra delle persone che inizia a sentire importanti per lei, può cercare, nella relazione con loro, una disconferma dell’aspettativa che l’altro la trovi noiosa e faticosa. E per questo le propone inconsciamente dei test.
Ma in quanti modi possiamo mettere alla prova le nostre credenze patogene?
La Control Mastery Theory ha identificato tre grandi categorie di test: (1) i test di transfert, (2) i test per capovolgimento da passivo in attivo e (3) i test osservativi.
Quando propone un test di transfert, una persona si comporta in modo da facilitare la riproposizione delle relazioni traumatiche antiche nei suoi rapporti del presente, sperando che l’altro risponda in un modo diverso da quello degli oggetti traumatici. Come nell’esempio precedente, la donna dirà di non avere niente, sperando che il compagno si accorga che ciò non è vero e insista, mostrando così il suo interesse per lei e il suo coinvolgimento nel rapporto, cioè dimostrandosi diverso da sua madre. Questo è un test di transfert per compiacenza. Questo tipo di test si definisce “di transfert” perché la donna “trasferisce” sul compagno l’immagine e il ruolo della madre; la specifica, “per compiacenza”, sta a indicare che il comportamento assunto è conforme alla credenza patogena: in questo caso, di appesantire l’altro e non meritare interesse Esistono anche test di transfert per ribellione: questa stessa donna, per esempio, potrebbe pretendere attenzione e interesse assoluto da parte del compagno, ribellandosi così alla sua credenza patogena, cioè non compiacendo ciò che immaginava la madre potesse volere, e sperando che il compagno la assecondi, disconfermando così la sua credenza patogena di non meritare interesse e comprensione. I test di transfert per ribellione, sfidando deliberatamente una credenza patogena, mettono in discussione l’autorità delle figure di riferimento dell’infanzia, provocando così pressanti sensi di colpa, per quanto inconsci. Il bisogno di espiazione che ne deriva spiega la quasi onnipresente presenza di una componente autopunitiva in questo tipo di test. Essi infatti tendono generalmente a suscitare una tipologia di risposta opposta a quella necessaria per disconfermare la credenza patogena che si sta testando. Per tornare all’esempio precedente, la pretesa di attenzione e interesse assoluto della donna potrebbe facilmente indurre nel compagno un rifiuto, o comunque una reazione di rabbia o fastidio.
Se invece propendesse per un test da passivo in attivo per compiacenza, questa donna potrebbe trattare con disinteresse o irritazione il compagno qualora quest’ultimo si mostrasse bisognoso di attenzioni e cure, sperando che lui le mostri che è possibile affrontare un trattamento di questo tipo senza esserne troppo turbati. Nei test da passivo in attivo per compiacenza, infatti, ci identifichiamo con le persone che ci hanno fatto soffrire e riproponiamo con altri il loro comportamento, sperando che questi altri possano essere dei modelli di ruolo che ci aiutino a sviluppare capacità di cui abbiamo bisogno per adattarci meglio. Come i test di transfert, pure quelli da passivo in attivo possono essere fatti anche per ribellione; in questo caso, al posto dell’identificazione con il comportamento o l’atteggiamento traumatizzante del genitore ci troviamo al cospetto di una controidentificazione. Utilizzando ancora una volta l’esempio in questione, un test da passivo in attivo per ribellione potrebbe manifestarsi per mezzo di un atteggiamento estremamente accuditivo e comprensivo rispetto a qualsiasi esigenza del compagno, atteggiamento inconsciamente finalizzato a vedere quest’ultimo felice, e a dimostrare così a se stessa che aveva il diritto, e aveva ragione, a desiderare che i suoi bisogni di attenzione fossero appagati. La componente autopunitiva dei test da passivo in attivo per ribellione si manifesta nel fatto che inducono la persona ad adottare comportamenti e atteggiamenti rigidi, spesso svincolati dalle esigenze reali dell’altra persona e che altrettanto spesso implicano sofferenze e rinunce per il soggetto. Ricorrendo sempre allo stesso esempio, non è affatto detto che il compagno di questa ipotetica donna abbia sempre bisogno di, o meriti sempre, accudimento e protezione, ed essere sempre accudenti e comprensivi implica dover mettere da parte spesso le proprie esigenze.
Infine, i test osservativi implicano semplicemente il desiderio di disconfermare le proprie credenze patogene osservando gli atteggiamenti o i comportamenti di persone che non sembrano esserne afflitte o che sembrano in grado di contrastarle. La donna in questione, ad esempio, potrebbe osservare attentamente in che modo una sua amica chiede ascolto o comprensione al compagno, sperando così di apprendere strategie più efficaci per contrastare la propria credenza patogena.
Il concetto di test rende dunque comprensibili molti comportamenti apparentemente eccessivi, strani o paradossali, assunti sia in psicoterapia sia nei rapporti della nostra vita quotidiana, e ci permette di osservarli da una prospettiva adattiva: sono tentativi forti di disconfermare le nostre credenze patogene nella relazione con un’altra persona. Hanno dunque una finalità sana, anche se tendono ad apparire illogici o insensati e a suscitare emozioni intense e risposte più o meno immediate.
Quando la risposta dell’altro “supera” il test, la persona in genere diventa più serena e rilassata, meno tesa, si adopera più attivamente per realizzare i propri obiettivi sani, si apre di più e diventa più coraggiosa. Viceversa, quando il test non viene superato la persona diventa più ansiosa, si deprime e si blocca. Da ciò consegue che un elemento centrale di qualsiasi tipo di psicoterapia, e per la verità di qualsiasi tipo di relazione che intenda essere di aiuto, è la capacità di superare i test a cui l’altra persona ci sottopone consciamente o inconsciamente. Ci sono diverse ricerche empiriche che dimostrano come l’esito di una terapia dipenda dalla capacità del clinico di superare i test del paziente; ciò non significa però che, superando uno o pochi test, le credenze patogene vengano disconfermate stabilmente o perdano in breve tempo la loro forza. Perché?
In primo luogo perché, come abbiamo visto, le credenze patogene sono state sviluppate nel corso dell’età evolutiva per proteggersi dai pericoli e padroneggiare la realtà: metterle alla prova significa esporsi a pericoli temuti. In secondo luogo, essendo nate nel contesto delle relazioni con le figure di riferimento dell’infanzia, le credenze patogene hanno per la persona la stessa autorità che i genitori hanno per un bambino, ragion per cui metterle in discussione espone a forti sensi di colpa interpersonali.